
Lezioni di scrittura? Se volete una vera e propria lezione di scrittura (involontaria) e comunicata con grande generosità e leggerezza, c’è la live dell’intervista di Vladimiro Bottone che ha inaugurato la Rassegna Una storia fantastica, una serie di interviste (condotte da me e da Laura Di Gianfrancesco) ad autori della letteratura contemporanea. In questo articolo trovate raccolti gli spunti principali e più interessanti in tema di scrittura, editoria, lettura donati da Vladimiro.
Si tratta di un autore che vanta una storia editoriale di grande valore: la sua prima pubblicazione, L’ospite della vita, risale al 1999 e passò la selezione del Premio Strega 2000; poi ha pubblicato Vicarìa. Un’educazione napoletana con Rizzoli nel 2015. I suoi due ultimi romanzi sono Il Giardino degli inglesi e Non c’ero mai stato, pubblicati entrambi da Neri Pozza.
Iniziare a scrivere
Quando e come ti sei innamorato della scrittura?
Io ho sempre amato scrivere, però, diciamo, fino a una certa età ho collaborato con testate giornalistiche, ma era un altro genere di scrittura.
Chi scrive normalmente è un ospite della vita, cioè non è un cittadino a pieno titolo dell’esistenza, è una persona che ha un rapporto complesso e complicato, alle volte difficile, nei casi peggiori impossibile, con la realtà. E allora che cosa fa questa persona scompensata? Si crea una propria realtà.
Mi riferisco alla scrittura di invenzione. Stiamo parlando di una scrittura che si inventa dei mondi che non esistono, che si inventa delle storie che in genere non si sono verificate, dei personaggi e delle voci che non ci sono e quindi siamo molto ai limiti della scissione della personalità. La scrittura serve, in casi del genere; per me, serve a ripararsi dalla realtà e a riparare, come se fosse un porto amico, in un’altra dimensione, quindi diciamo che, a un certo punto della mia esistenza, più o meno nel mezzo del cammin di nostra vita, no, un po’ più del mezzo, mi sono accorto che tutto questo mi aiutava a esistere, mi aiutava a vivere.
Infatti ho un debito sconfinato nei confronti della scrittura e della narrativa, non oso dire della letteratura; per sdebitarmi dovrei scrivere dei capolavori, ma non sono capace. Spero di scrivere qualche buon libro. Devo quindi moltissimo a quel relativo equilibrio che ho raggiunto, perché quando la realtà si fa difficile da sostenere, e nella vita succede, io riesco a riparare nel mondo della scrittura che mi serve anche per elaborare, esorcizzare e stemperare le mie ossessioni.
La scrittura nasce dalle ossessioni
Un’altra mia idea è che la scrittura vera nasca dalle ossessioni; lo scrittore è colui che cerca di costruirsi un altro mondo in cui trasfigura e trascrive le proprie ossessioni, quelle che nella realtà lo tormentano e che – filtrate dalla scrittura e depositate in quell’altro mondo che è il testo del romanzo, che è l’invenzione – diventano più gestibili, più governabili, addirittura diventano un fattore di gratificazione. Quando l’ossessione riesce a trovare il proprio stile, riesce a trovare i personaggi giusti, a essere trascritta sulla pagina, bene, l’autore passa da uno stato di sofferenza psicologica a uno stato di gratificazione psicologica.
Quando riesco a scrivere una pagina buona, ho un senso di pienezza vitale che è l’esatto contrario di quella malattia da cui la scrittura parte, cioè lo scrittore è un malato sostanzialmente psichico. Perché le persone sane non scrivono, le persone sane vivono. Ecco, lo scrittore dalla scrittura riceve addirittura un ritorno di integrazione psicologica di benessere, di pienezza: io devo tutto alla scrittura, quando potevo crollare, la scrittura mi ha tenuto in piedi, quando potevo cedere le armi, la scrittura me ne ha date altre e quindi io devo tutto alla scrittura, è la cosa che mi ha dato di più nella vita, cioè mi ha permesso di vivere.
A un certo punto ho trovato la strada, non vorrei chiamarla terapia o possiamo anche chiamarla terapia, è questa qui e io scriverò comunque; mi pubblicheranno? Sarò felice, perché scrivere per qualcuno è straordinario, entrare nelle vite degli altri, straordinario portare un po’ della propria esperienza e conoscenza; se non sarò pubblicato sarò comunque felice perché esisto, perché posso esistere con una mia interezza, con una mia integrità. Questa è una tesi che credo sia inconfutabile. Cioè non stiamo parlando delle persone che ogni tanto scrivono o si divertono a scrivere o hanno piacere a scrivere; chi sceglie di percorrere questa strada quotidianamente, fino in fondo, parte non dico da un abisso, però parte da un bel dislivello e la scrittura è quindi il mio bastone, la mia guida.
Io devo tutto alla scrittura, quando potevo crollare la scrittura mi ha tenuto in piedi, quando potevo cedere le armi, la scrittura me ne ha date altre e quindi io devo tutto alla scrittura, è la cosa che mi ha dato di più nella vita, cioè mi ha permesso di vivere.

Editor: l’esperienza di Vladimiro Bottone
Il protagonista del romanzo “Non c’ero mai stato”, Ernesto Aloja, è un editor, e tu scrivi che l’editor è come un osteopata che raddrizza la testa, raddrizza il collo dei suoi pazienti. Qual è stata la tua esperienza con gli editor?
Io ho avuto esperienze di vario genere: buone, piuttosto buone, terribili, una dialettica che ha preso le forme del braccio di ferro, altre estremamente proficue, però io non voglio parlare del peggio, voglio parlare del meglio, di chi è stato il mio migliore editor, e devo dire sono stato fortunato.
Questo libro – Non c’ero mai stato – ha avuto alcuni incidenti di percorso; il primo, uscire in concomitanza con la pandemia, sono le casualità della vita, il mio libro non ha nessunissima importanza a paragone con quella tragedia; però, diciamo, il libro ha avuto una grande fortuna, cioè il fatto che l’editor fosse Francesco Durante che era anche un mio amico, oltre che una persona dalla grande statura intellettuale e dall’esperienza di scrittura e di traduzione notevolissime. Lui ha letto il libro, incuriosito dal fatto che io fossi passato dallo storico al contemporaneo, e poi abbiamo cominciato a lavorare.
Mi indicava le pagine che non lo convincevano, almeno lui ha sempre detto questo: “Non mi convince”.
E poi diceva: “Secondo me, la riscriverei”. Mi ha lasciato questa libertà, io rileggevo la pagina con spirito critico. Era una persona che voleva bene non solo a me, ma che voleva bene al libro. Forse l’editor deve essere uno che vuol bene al libro e non voglio pretendere che voglia bene all’autore.
Quando ci fu uno stallo, lui lo risolse da persona molto intelligente qual era, trovò la frase giusta, credo che l’editor debba trovare la frase giusta; lui mi disse con quell’accento napoletano: “Ma noi tutti lo sappiamo che sai scrivere perché ce lo ricordi a ogni rigo?”
Ecco, questa per me fu un’illuminazione. Aggiunse: “Perché non sporchi un pochino?”
Altra frase indovinatissima.
Stile di scrittura e intelligenza artificiale
Tale valutazione di Francesco Durante è diventata un mio faro, quando scrivo mi fermo e dico: “Attenzione, ho voluto mostrare, come dire, un passaggio virtuosistico?” Che può anche starci, se ha una sottostante necessità e se non deborda nell’esercizio di stile fine a se stesso. Perché io credo nello stile. L’intelligenza artificiale sarà in grado di produrre dei libri perfettamente all’altezza di alcuni libri che adesso sono in classifica, li farà, li riprodurrà, questo dobbiamo mettercelo in testa, la potenza della tecnica è un fiume che si non ferma.
Allora cos’è che potrà ancora permettere al romanzo di essere scritto da umani? La forza dello stile, la forza delle ossessioni. La capacità di scartare, di deviare rispetto a certi canoni.
Questo ci permetterà ancora di scrivere umanamente. Io credo nello stile, purché non diventi un esercizio un po’ gratuito, quindi stile ma al servizio delle ossessioni, perché la verità è lì, la verità è nelle ossessioni e questa verità deve trovare la sua voce, così ci permetterà di leggere dei romanzi che nessuna intelligenza artificiale riuscirà a generare; l’intelligenza artificiale non li genera perché non ha ossessioni, non ha inconscio e non ha sensibilità fisica, corporea, emotiva, l’intelligenza artificiale ha una formidabile capacità computazionale di ricombinare trame e personaggi, di cui viene nutrita, e di produrre un medio libro da classifica, questo lo farà, lo farà sicuramente.
Scrivere a mano
Vladimiro, scrivi a mano?
Le mie prime stesure sono sempre e rigorosamente a mano, perché l’ossessione non deve essere filtrata o scontrarsi o subire l’interferenza della tastiera. Secondo me, l’ossessione deve scorrere con la massima naturalezza, dalla testa al braccio e alla mano, da lì alla scrittura. Poi, perché la scrittura è anche, anzi è inevitabilmente, riscrittura io che cosa faccio? Non voglio essere di esempio, ma dico semplicemente qual è la mia pratica.
La prima stesura è rigorosamente manoscritta poi trasfondo tutto in un testo di Word dove riscrivo, rifinisco, cancello, sposto. Ecco, la fase della riscrittura trova un servitore estremamente funzionale nel programma di videoscrittura. Ma la prima fase della scrittura è un rapporto che deve intercorrere tra mente e mano, forse la parte più bella del corpo umano. La mano è più affascinante e sicuramente più complessa di una tastiera. Probabilmente chi nasce nativo digitale scrive su Word perché non potrebbe immaginare diversamente.
I personaggi letterari: come costruirli
Quanto tempo dedichi alla cura dei personaggi? Spiegaci come li conosci, come ti approcci a loro per poi renderli così bene sulla pagina.
Racconto la mia esperienza senza valore didattico. La questione è questa: non sono io ad approcciarmi ai personaggi, sono loro che approcciano me, è un fenomeno molto strano, probabilmente rientra, diciamo così, nelle modalità della mia malattia mentale perché evidentemente sono un disturbato, su questo credo di non poter avere dubbi.
Ma sono i personaggi che mi vengono a cercare; se li cerco io, l’esito non è mai positivo; Kafka diceva: “Chi cerca non trova, chi non cerca è trovato”; da scrittore immenso – lui un gigante, io un nano da giardino – Kafka diceva una verità che appartiene, penso, a un buon numero di autori e autrici, cioè il personaggio riuscito è quello che ti viene a trovare ed è quello che ti parla con la sua voce. Ogni volta che io, da scrittore, mi sono ritrovato a essere scrivano e quindi ad annotare quello che la voce mi diceva, il personaggio aveva vita e il tono della pagina saliva. Quando sono io che devo scrivere un dialogo dal nulla, fatalmente – ripeto, esperienza personalissima – non lo sento, non mi risuona e quindi c’è un qualcosa di artificioso e di freddo.
Mozart in viaggio per Napoli: quando arrivano i personaggi
Racconto di due personaggi di un mio romanzo che si intitola Mozart in viaggio per Napoli. Avevo buttato giù le prime pagine, c’era ancora parecchio della trama da mandare avanti. Era un periodo in cui mi si accumulava lavoro, eravamo sotto Natale e arrivai alle festività veramente stanco.
Prendo l’aereo, atterro a Napoli, arrivo e, stanchissimo, mi addormento su un divano alle 11 e mi sveglio alle 5 del pomeriggio, quando mi sveglio mi ritrovo due personaggi, un fratello e una sorella, parliamo di due personaggi nella Napoli del Settecento, erano loro due e, a quel punto, quando loro due entravano in scena, io non dovevo far altro che ascoltare le loro voci. Ecco, questa è una responsabilità di non essere infedele a quelle voci, di renderle, perché c’è la possibilità che nel passaggio si possa filtrare, intellettualizzare, si possa tradire. Se uno ha il dono di un personaggio che ti parla, deve essere fedele a quel dono e deve rispettare quel dono. I miei personaggi meno riusciti sono quelli che io ho suscitato, che ho cercato di suscitare e sono quelli che mi piacciono di meno; altri invece sono così belli e compiuti con una loro verità, una loro tridimensionalità.
Io non sopporto, da lettore – perché poi lo scrittore è l’altra faccia del lettore e viceversa – i personaggi cartonati, sono piatti in altezza e larghezza, ma la profondità non c’è. Oppure, a volte, i personaggi possono somigliare alle grucce su cui mettiamo un abito, la gruccia però è qualcosa di vuoto. Il personaggio, secondo me, deve avere una sua tridimensionalità, che persino i personaggi minori dovrebbero avere; allora qui entriamo nella differenza con i grandi scrittori, in cui anche i personaggi minori hanno una verità tridimensionale. L’intelligenza artificiale un personaggio tridimensionale con questa verità non te lo produce, l’intelligenza artificiale ti produrrà sicuramente degli ottimi cartonati; per resistere a questa sfida, dobbiamo mettere in campo le cose che sono solo nostre. Allora la verità umana di un personaggio appartiene solo allo scrittore o alla scrittrice.
Se uno ha il dono di un personaggio che ti parla, deve essere fedele a quel dono e deve rispettare quel dono. I miei personaggi meno riusciti sono quelli che io ho suscitato, che ho cercato di suscitare e sono quelli che mi piacciono di meno; altri invece sono così belli e compiuti con una loro verità, una loro tridimensionalità.
Creare l’ambientazione
Che tipo di lavoro fai sull’ambientazione, sui luoghi entro cui i personaggi vivono e si muovono?
Lo tratto al pari dei personaggi, l’ambiente è un personaggio ed è, a volte, il personaggio più importante, perché detta il tono del libro. Certo, tutti i personaggi dettano un tono nella pagina in cui compaiono; cioè quando entra un personaggio particolarmente inquietante e riuscito nella sua verità, immediatamente la pagina vira di colore.
Poi, il computer e la rete sono formidabili, cioè sulla Napoli dell’Ottocento esistono delle biblioteche di università non italiane che hanno digitalizzato dei testi del 1820, del 1830; per muovermi nella Napoli del 1836, sono andato a cercarmi le guide del forestiero, le guide turistiche dell’epoca. In rete si trova tutto quello che c’è da trovare e io ricordo che per i primi libri, 24 anni fa, quando la rete non era una realtà a disposizione, diciamo, dell’utente comune, dovevo arrangiarmi con le biblioteche.
Che cos’è che spinge l’autore ad ambientare sempre le storie nella propria città?
Io vivo a Torino da oltre 30 anni e la maggior parte della mia vita si può dire che l’ho passata qui, però le cose che sono veramente successe, le cose che hanno improntato (la mia vita) sono capitate a Napoli; quelle che sono capitate qui, sotto certi aspetti, sono una ripetizione, riproposizione, riedizione di quello che capitò la prima volta lì. Quindi un mio comportamento, una mia fobia, una mia predilezione si sono manifestate lì, l’imprinting, l’impronta è avvenuta lì. Per certi aspetti è anche un’ottima cosa mettere il naso fuori dalla propria città natale.
Esiste il mondo-Napoli, è una città mondo, ma non è il mondo; esiste il mondo e nel mondo le cose si fanno in tanti modi diversi. La città natale è la città che ti impronta. Io avevo anche dei conti da chiudere con la mia città, che è metafora del mio passato, perché dire Napoli significa dire il mio passato, le impronte originarie, le scene primarie. Quindi con tutto questo io avevo dei conti da chiudere, per il momento mi sembra di averli abbastanza chiusi; adesso però ho dei conti aperti con Torino, la città dove ho vissuto per maggior tempo e ho scritto un romanzo ambientato nel ‘44 a Torino.
Contenuto erotico: come gestirlo?
Ci sono dei passaggi nel tuo romanzo “Non c’ero mai stato” con un contenuto erotico molto alto e uno stile inusuale, come sei riuscito a renderlo?
Non credo che ci riproverò più, per un motivo molto semplice: perché scrivere di eros è molto faticoso, perché è molto difficile. Come fare un triplo salto carpiato. Chi scrive di eros si muove come su un asse di equilibrio, con, da un lato, il rosa caramellato, dall’altro lato, il rischio di cadere nella macelleria, nella rozzezza, che poi cadere nella macelleria significa cadere nelle espressioni banali. Cioè la frase fatta; il cliché è il pericolo mortale dell’autore, è la freccia avvelenata. Nel caso della scrittura che parla e dà voce all’eros questo pericolo è triplicato, quindi devi stare attentissimo, devi essere rodata o rodato, avere spalle abbastanza larghe, aver commesso molti errori e aver imparato molto e poi azzardarti. Quando si tratta di parlare di eros, autrici o autori di grande rilievo e di grande bravura e di grande storia prendono degli scivoloni tremendi, per paura di cadere nella macelleria, imboccano la strada del rosa confetto; per paura del rosa confetto strapiombano e si sfracellano sul lato della macelleria. Scrivendo “Non c’ero mai stato”, io ho proseguito, ho camminato lungo quest’asse di equilibrio e se devo dirlo, con un pizzico di modestia, non credo di essere caduto. Dopo di che lo sforzo è stato rilevante, non so se avrò grande voglia di riprovarci.
Consigli di lettura
Potrei dire Lolita o Il dono di Nabokov; L’educazione sentimentale di Flaubert o Madame Bovary, citerei dei testi classici, canonici, senza sorprese.
Io vorrei invece consigliare un testo che può essere una mela avvelenata ed è un romanzo di Jonathan Littell che si intitola Le benevole, questo è un testo che l’intelligenza artificiale non produrrà mai neanche fra 120 anni, è un testo in cui l’io narrante è un ufficiale delle SS, quindi si parla dell’olocausto, dramma fra i drammi, tragedia fra le tragedie, aggredendolo dalla sua faccia in ombra.
Altra possibilità rischiosissima, poteva venir fuori un io narrante truculento, perché le pagine realistiche ci sono, sono rese magnificamente, sono rese tremendamente, altro che splatter. Jonathan Littell è un grande artista e rende le esecuzioni di massa degli ebrei dell’Europa in una maniera quasi insostenibile, quindi chiede molto al lettore. Ha fatto ruotare il tema di 180 gradi, facendolo declinare dalla voce di un ufficiale nazista che nel suo passato annovera anche un incesto.
Ciò nonostante non è una bestia.
C’è uno straordinario prologo, che secondo me potrebbe essere reso da un grande attore a teatro, in cui lui cerca di farci capire che non è tanto diverso da noi.
Non c’è mai, come dire, la rozzezza dell’espressione, l’espressione grezza è rozza, è anti-letteratura ed è anti narrativa. Lui mantiene uno stile alto e una capacità fotografica che mette a dura prova il lettore.
La letteratura aiuta a vivere
La letteratura, sia come lettori che come autori, come lettrici e come autrici, non guarisce, però aiuta a vivere, ci aiuta nei casi migliori a guardare dei paesaggi che non sospettavamo; ogni volta che io ho incontrato un grande libro, per quelle ore ho vissuto bene, ho vissuto molto meglio. Ho vissuto talvolta magnificamente e sono stato preso da attacchi di feroce nostalgia perché lo stavo finendo, perché avrei abbandonato quei personaggi con la storia.
Ricordiamoci sempre che un romanzo è fatto da alcune cose imprescindibili: la storia, ma non esiste solo la storia se no cadiamo nello storytelling; i personaggi, ma non esistono solo i personaggi anche se sono imprescindibili; la voce che è lo stile dell’autore o dell’autrice. Ecco, un buon romanzo è fatto di queste tre cose: una buona storia, dei buoni personaggi e una buona voce che non è un accessorio, è lo strumento attraverso cui la narrazione si svolge, è l’occhio che guarda, è la voce che racconta. Quindi quando andiamo in libreria teniamo d’occhio questi tre aspetti e poi usciamo senza aver comprato niente. E comunque capita molto spesso. Una volta le librerie erano dei posti in cui avrei passato ore, però va bene si trovano anche delle cose molto interessanti come nel caso di Jonathan Littell che tra l’altro ha anche una copertina meravigliosa.
Ringrazio i lettori perché sono quelli che danno linfa, senza i lettori un libro è come uno spartito che non esegue nessuno, di fatto non esiste e quindi un libro esiste perché esistono i lettori.
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